La grave crisi di liquidità non legittima l’inadempienza

La grave crisi di liquidità non legittima l’inadempienza

La grave crisi di liquidità
non legittima l’inadempienza
La difficoltà economica che induce il contribuente a omettere i versamenti può essere valutata al massimo come circostanza attenuante e non come causa di giustificazione
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Rischia una condanna penale l’imprenditore che non versa le ritenute d’imposta per pagare gli stipendi ai dipendenti. La crisi della propria azienda, infatti, non è riconducibile in alcun modo al concetto di causa di forza maggiore.
È, in sintesi, il contenuto della sentenza della n. 49107 del 6 dicembre della Corte di cassazione.
 
Il fatto
La vicenda inizia con un precedente giudizio in cui il Gip nega al Pm la richiesta di sequestro preventivo per equivalente nei confronti di un indagato per il reato di cui all’articolo 10-bis del Dlgs 74/2000, per l’omesso versamento di ritenute di imposta per il 2007, a causa dell’insussistenza dei presupposti.
Rigettato l’appello del Pm, l’ordinanza del tribunale del riesame venne però annullata con rinvio dalla Corte di cassazione, in quanto - contrariamente all’assunto dei giudici di merito - la mancata indicazione nella richiesta del Pm del valore dei beni da vincolare non era ostativa all’adozione del provvedimento ablativo, considerato che, in materia, il giudice che emette il provvedimento indica soltanto l’importo complessivo dovuto, mentre nella fase esecutiva al pubblico ministero spetta l’individuazione specifica dei beni da apprendere e la verifica della corrispondenza del loro valore al quantum indicato nel sequestro.
 
In sede di rinvio, il tribunale del riesame, disponendo il sequestro, osservava che le difficoltà finanziarie della società amministrata dall’indagato non escludevano l’elemento soggettivo del reato, atteso che l’interessato non aveva dato prova dell’impossibilità assoluta a provvedere al versamento delle trattenute previdenziali, risultando piuttosto che l’omissione era legata a scelte imprenditoriali di natura strategica.
 
L’ordinanza viene ora impugnata per cassazione dall’indagato, deducendone l’illegittimità, poiché il provvedimento cautelare sarebbe totalmente assente del fumus, per non avere il ricorrente la disponibilità economica per assolvere al pagamento delle ritenute in contestazione, per grave crisi economico-finanziaria attraversata dalla società. Tale pagamento avrebbe comunque comportato l’impossibilità di pagare gli oneri del personale e i creditori, compromettendo seriamente la prosecuzione dell’attività societaria. L’opzione adottata, invece, poteva consentire il pagamento successivo delle ritenute a seguito dell’intervento di altri soci.
In sostanza, tra i due “mali” (fallimento della società o pagamento delle ritenute), sarebbe stato scelto quello minore.
 
Motivi della decisione
Ma la tesi del contribuente non ha convinto la sezione penale giudicante, che ha ritenuto infondato il ricorso, considerato che la questione circa la totale impossibilità di onorare l’obbligazione fiscale, gravante sull’amministratore della società, è stata già esaminata dal tribunale del riesame, che ha ritenuto come la scelta operata fosse priva di prova assoluta e convincente, dovendosi piuttosto rapportare l’omessa fatturazione a scelte imprenditoriali strategiche.
Pertanto, ad avviso della Suprema corte, avendo il giudice di merito fornito “adeguata e logica motivazione sulla questione posta”, la decisione impugnata è risultata incensurabile in sede di legittimità, tanto più in considerazione della natura cautelare del provvedimento di cui si discute - si legge nella succinta motivazione - e della conseguente valutazione sommaria circa la sussistenza del fumus del contestato reato.
 
Occorre osservare, al riguardo, che il legislatore, nel reintrodurre con la legge finanziaria n. 311/2004 la fattispecie di omesso versamento di ritenute certificate, non si è preoccupato di disciplinare la questione del trattamento da riservare al contribuente che, in presenza di una grave crisi di liquidità, ponga in essere la condotta disegnata dalla fattispecie incriminatrice.
Una soluzione adeguatrice a tale problema, tuttavia, è sempre stata respinta dalla Corte di cassazione (cfr, tra le altre, le sentenze 3854/1998 e 2412/1994), la quale ha affermato, in particolare, che, nel versare le ritenute di acconto, il datore di lavoro opera quale sostituto d’imposta (articolo 64 del Dpr 600/1973) e oggetto di tale versamento sono somme di denaro che egli trattiene alla fonte, all’atto del pagamento delle retribuzioni ai dipendenti, dal che deve farsi derivare l’obbligo del loro contestuale accantonamento e il principio che, in caso di insufficienza delle risorse, le retribuzioni vanno corrisposte parzialmente in modo da accantonare, e poi versare all’Erario, l’imposta dovuta sulle somme di denaro effettivamente pagate (Cassazione 48771996).
 
La mancanza di liquidità, quindi, è stata, al massimo, valutata quale circostanza attenuante, non ritenendosi in grado di integrare una causa di giustificazione, né un elemento atto a escludere la presenza del dolo necessario. Perciò le difficoltà economiche in cui verte l’impresa non sono in alcun modo riconducibili al concetto di causa di forza maggiore (Cassazione, sentenze 4529/2008 e 9041/1997).
Salvatore Servidio
pubblicato Venerdì 20 Dicembre 2013
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