Se il Fisco prova l段nesistenza, la palla passa al contribuente

GIURISPRUDENZA

Se il Fisco prova l’inesistenza, la palla passa al contribuente

Una volta che l’Agenzia ha dimostrato la fittizietà delle operazioni, spetta all’accertato fornire elementi in grado di ribaltare la conclusione, che non siano fatture corrette e/o contabilità regolare

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In caso di accertamento per operazioni oggettivamente inesistenti, se l’Amministrazione finanziaria ha provato l’inesistenza delle operazioni, spetta al contribuente, che ne abbia interesse, dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate. Questo principio è stato confermato dalla Corte di cassazione con l’ordinanza n. 32217 del 21 novembre 2023.

La vicenda processuale ha preso origine da un accertamento, emesso nei confronti di una società, relativamente a Ires, Irap e Iva, oltre che alle connesse sanzioni e agli interessi.
Con l’atto di accertamento veniva contestato che alcune operazioni, apparentemente compiute dalla società, erano da considerare oggettivamente inesistenti. Di conseguenza, sulla base degli articoli 109 del Testo unico sulle imposte dirette (Dpr n. 917/1986) e 19 del Testo unico sull’Iva (Dpr n. 633/1972) l’Amministrazione finanziaria ha negato la deducibilità dei costi e la detraibilità dell’Iva relativamente alle operazioni considerate inesistenti.

A seguito del ricorso presentato dalla società destinataria dell’atto di accertamento, sia la Ctp di Matera che la Ctr della Basilicata hanno avallato il comportamento dell’Amministrazione finanziaria.

In particolare, in sede contenziosa, la società ha contestato la violazione delle disposizioni sopra citate (articoli 109 Tuir e 19 decreto Iva) e dell’articolo 2697 del codice civile. Quest’ultima norma disciplina l’onere della prova, disponendo che “chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento. Chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda”.

Sulla base di questa disposizione, la società riteneva che, in mancanza di specifici addebiti mossi dall’Amministrazione finanziaria in relazione alle sue scritture contabili, non poteva ricadere sulla società stessa l’onere di dimostrare l’effettività delle operazioni da essa compiute.

Questi rilievi sono stati ritenuti del tutto infondati dalla Corte di cassazione. Con la pronuncia in esame, infatti, si è negato che, nel caso in esame, fossero state violate le norme dettate in tema di ripartizione dell’onere della prova.

Ciò in quanto, l’Amministrazione finanziaria aveva comunque dimostrato, anche mediante presunzioni semplici, l’oggettiva inesistenza delle operazioni contestate.

Di conseguenza, una volta che l’ente pubblico ha fornito tale prova, ricade sul contribuente, che ha interesse a portare in deduzione i costi e a detrarre l’Iva, dimostrare che le operazioni contestate sono state, in realtà, effettivamente compiute.

Al riguardo i giudici della suprema Corte, richiamando un principio ormai consolidato (cfr Cassazione nn. 25124/2023, 13235/2022, 7383/2022, 4251/2022 e 28268/2021), hanno precisato che, per dimostrare l’effettività delle operazioni, non è sufficiente esibire le relative fatture o provare la regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento adoperati. Ciò, in quanto, questi strumenti “…vengono di regola utilizzati proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia”.

In particolare, con le richiamate pronunce:

  • si era già affermato che il contribuente è obbligato a tenere regolarmente le scritture contabili e le fatture, le quali devono contenere l’oggetto e il corrispettivo di ogni operazione commerciale, mentre spetta all’Amministrazione “…dimostrare, attraverso la prova logica (o indiretta) o storica (o diretta) e anche con indizi integranti presunzione semplice, la fittizietà dell’operazione, essendo il contribuente nuovamente chiamato a fornire la prova contraria nel caso in cui l’ufficio abbia assolto al proprio onere probatorio” (n. 13235/2022)
  • si era espresso il principio in base al quale non è mai detraibile l’Iva relativa alle operazioni oggettivamente inesistenti, con riferimento alle quali l’Amministrazione finanziaria ha l’onere di provare che l’operazione non è stata posta in essere, ma non ha anche l’onere “… di dimostrare la mala fede del contribuente, atteso che, una volta accertata l’assenza dell’operazione, non è configurabile la buona fede di quest’ultimo, che sa certamente se ed in quale misura ha effettivamente ricevuto il bene o la prestazione per la quale ha versato il corrispettivo” (n. 4251/2022).   

In merito alla problematica in esame, occorre richiamare anche l’articolo 8, secondo comma, del Dl n. 16/2012, in base al quale, ai fini dell’accertamento delle imposte sui redditi,  “…non concorrono alla formazione del reddito oggetto di rettifica i componenti positivi direttamente afferenti a spese o altri componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati, entro i limiti dell'ammontare non ammesso in deduzione delle predette spese o altri componenti negativi”.

Anche alla luce delle pronunce sopra richiamate, con l’ordinanza in esame è stato condiviso l’operato delle Commissioni tributarie che, in relazione al caso specifico, una volta considerata fondata la pretesa dell’ufficio in merito all’inesistenza oggettiva delle operazioni, hanno ritenuto  “…non fornita la prova contraria dell’effettiva esistenza dell’operazione, non essendo stata data prova della coincidenza dell’operazione commerciale con la sua espressione documentale a fronte della falsità della rappresentazione contabile di cui alle fatture utilizzate, non potendo l’onere della prova essere assolto mediante produzione delle sole fatture”.

Per questi motivi è stato respinto il ricorso della società e ritenuto legittimo l’atto di accertamento emesso dall’ufficio.

 

Fonte

Fiscooggi.it

 

 

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