Negli ultimi mesi stiamo assistendo, sempre più spesso, a un nuovo modo di agire dell’Agenzia delle Entrate: vengono inviati ai contribuenti veri e propri schemi di accertamento basati sul punteggio ISA (Indicatori Sintetici di Affidabilità) e sulla bassa redditività dell’impresa. In parole semplici, se un’impresa ha un punteggio ISA inferiore a 8 (talvolta anche 8,5) e un utile basso rispetto a quello medio di settore, l’Ufficio presume che i ricavi dichiarati siano troppo bassi e ipotizza un maggior reddito non dichiarato. Gli ISA (introdotti dall’art. 9-bis del D.L. 50/2017) sono strumenti che servono all’Amministrazione finanziaria per valutare la coerenza e l’affidabilità fiscale di imprese e professionisti. Nella teoria, gli ISA non dovrebbero servire a fare accertamenti, ma solo a selezionare i soggetti da controllare. Nella prassi, gli Uffici seguono uno schema ricorrente: Si parte dal punteggio ISA basso (inferiore a 8). Si evidenzia la bassa redditività dell’impresa rispetto alla media di settore (ma senza mostrare al contribuente i dati reali del campione usato per il confronto). Si definisce la gestione come antieconomica, sostenendo che un utile troppo basso rispetto ai costi è “anormale”. Si richiama una giurisprudenza secondo cui la scarsa redditività può comportare inversione dell’onere della prova, cioè tocca al contribuente dimostrare di non aver nascosto ricavi. Si procede poi a ricalcolare i ricavi, applicando al costo del venduto una percentuale di ricarico media ricavata da un gruppo di imprese “simili” ma con punteggio ISA più alto. Infine, si confrontano i ricavi così ricostruiti con quelli dichiarati e si sostiene che la differenza rappresenta imponibile non dichiarato. In alternativa, in alcuni casi: si prende a riferimento la percentuale di ricarico applicata solo su alcuni prodotti venduti dall’impresa (come se fosse rappresentativa di tutta l’attività); per le attività artigianali, si sommano al valore dei materiali anche le ore di lavoro del titolare e dei collaboratori, attribuendo loro un presunto valore di mercato. Questa metodologia presenta diversi profili di criticità: Gli ISA sono nati come strumento di selezione del rischio fiscale, non come base per calcolare nuovi ricavi. Il punteggio ISA e la bassa redditività non sono prove, ma semplici indici di anomalia. Trattarli come “presunzioni gravi, precise e concordanti” (come previsto dagli articoli 39 DPR 600/1973 e 54 DPR 633/1972) significa stravolgere la logica della norma. Inoltre, l’Ufficio non mette a disposizione i dati del campione utilizzato, impedendo al contribuente di difendersi in modo pieno e trasparente. Infine, basare l’accertamento solo sulla “bassa redditività” equivale a punire chi ha margini ridotti o attraversa una fase economica difficile. Immaginiamo un’impresa che: acquista merci per € 100.000, dichiara ricavi per € 120.000, ha quindi un ricarico del 20%. Il suo punteggio ISA è 7,5, perché la redditività è più bassa rispetto alla media di settore (dove il ricarico medio è, ad esempio, 30%). L’Agenzia, sulla base di quel dato, ricalcola i ricavi applicando il 30% di ricarico al costo del venduto: € 100.000 × 1,30 = € 130.000 E conclude che il contribuente ha “occultato” € 10.000 di ricavi. Chi riceve questo tipo di contestazioni deve: chiedere l’accesso ai dati e ai criteri utilizzati per il confronto; evidenziare che gli ISA non sono prova diretta di evasione; dimostrare le specificità economiche della propria attività (strategie commerciali, costi straordinari, stagionalità, ecc.); eccepire la violazione del principio di trasparenza e proporzionalità. Il punteggio ISA basso non può diventare automaticamente una prova di evasione. La giustizia tributaria non può ridursi a un confronto tra numeri medi e dati astratti: deve restare ancorata alla realtà economica di ciascun contribuente.
Cosa sono gli ISA e a cosa servono davvero
Ogni contribuente riceve un punteggio da 1 a 10, che indica quanto la sua gestione risulta “in linea” con i parametri medi del settore.
Nella pratica, invece, si stanno trasformando in un vero e proprio strumento di accertamento induttivo, con cui il Fisco tenta di “ricalcolare” i ricavi dell’impresa.
Come opera oggi l’Agenzia delle Entrate
Dove sono i problemi
Esempio concreto
Ma quel risultato nasce solo da una media statistica, non da un fatto concreto.
Non tiene conto di eventuali sconti commerciali, rimanenze, differenze di qualità dei prodotti o politiche di prezzo legate al mercato reale.
Cosa dovrebbe fare il contribuente
In conclusione
Gli indici di affidabilità servono per orientare i controlli, non per costruire accertamenti fondati su presunzioni statistiche.
Perché, come spesso accade, dietro un utile basso non c’è evasione, ma solo impresa vera.
